sabato 30 maggio 2015

Cassazione: si al licenziamento per l'utilizzo dei social network durante l’orario di lavoro







licenziamento per l'utilizzo dei social network durante l’orario di lavoro

Con sentenza n. 10955 del 27 maggio 2015, la Corte di Cassazione 
ha affermato la legittimità del licenziamento effettuato dal datore 
di lavoro nei confronti di un proprio dipendente che utilizzava, 
a fini personali, Facebook, telefono cellulare e tablet, 
durante l’orario di lavoro.

Tali attività, hanno evidenziato i giudici della Suprema Corte,   
possono interrompere la prestazione lavorativa e creare un danno 
all’azienda in termini di produttività e di sicurezza sul lavoro 
(v. distrazione). Inoltre, hanno statuito come l’eventuale intervento 
dell’azienda per scoprire questa attività del dipendente, attraverso 
la creazione di un falso profilo Facebook, non vìola la privacy del 
lavoratore, né i principi di buona fede e correttezza 
nell’esecuzione del rapporto di lavoro.

La sentenza

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 dicembre 2014 – 27 maggio 2015, n. 10955
Presidente Vidiri – Relatore Doronzo

Svolgimento del processo

1. D.D.L., dipendente della P. A. s.r.l. con la qualifica di operaio addetto alle presse stampatrici, è stato licenziato in data 24 settembre 2012 sulla base delle seguenti contestazioni: 1) in data 21/8/2012 si era allontanato dal posto di lavoro per una telefonata privata di circa 15 minuti che gli aveva impedito di intervenire prontamente su di una pressa, bloccata da una lamiera che era rimasta incastrata nei meccanismi; 2) nello stesso giorno era stato trovato, nel suo armadietto aziendale, un dispositivo elettronico (Ipad) accesso e in collegamento con la rete elettrica; 3) nei giorni successivi, in orari esattamente indicati, si era intrattenuto con il suo cellulare a conversare su face book. Il licenziamento è stato intimato per giusta causa, ai sensi dell’art. 1, comma 10, Sez., 1V- Tit. VII del C.C.N.L. di categoria.
1.1. Il D.L. ha presentato ricorso ex art. 18 legge n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 421 della legge 28 giugno 2012, n. 92, al Tribunale di Lanciano il quale, con sentenza resa in sede di opposizione contro l’ordinanza con la quale era stata rigettata l’impugnativa di licenziamento, l’ha accolta e ha dichiarato risolto rapporto di lavoro tra le parti con effetto dalla data del licenziamento; ha quindi condannato la società datrice di lavoro a corrispondere al lavoratore un risarcimento del danno pari a ventidue mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il Tribunale ha infatti ritenuto che i fatti contestati al lavoratore, – non essendo riconducibili a condotte punite dal C.C.N.L. con sanzioni conservative, in ragione della pluralità delle stesse e della loro commissione in un ristretto contesto spazio­temporale -, nondimeno, non integrassero gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, con la conseguenza che in base al quinto comma dell’art. 18 cit, nel testo modificato, doveva riconoscersi al lavoratore la sola tutela “attenuata” del risarcimento del danno.
1.2. La sentenza è stata reclamata dinanzi alla Corte d’appello dell’Aquila, con impugnazione principale, dal D.L. e, con impugnazione incidentale, dalla P. s.r.l. e la Corte aquilana, con sentenza depositata in data 12 dicembre 2013 ha rigettato il reclamo principale e accolto quello incidentale, rigettando così l’impugnativa di licenziamento proposta dal ricorrente, che ha poi condannato alla restituzione della somma ricevuta in esecuzione della sentenza reclamata. 1.3. La Corte territoriale ha ritenuto che i fatti addebitati al lavoratore siano stati provati attraverso la deposizione del teste Pinto, responsabile del personale; che l’accertamento compiuto dalla società datrice di lavoro delle conversazioni via internet intrattenute dal ricorrente con il suo cellulare nei giorni e per il tempo indicato – accertamento reso possibile attraverso la creazione da parte del responsabile del personale di un “falso profilo di donna su face book” – non costituisse violazione dell’art. 4 della legge n. 300/1070, in difetto dei caratteri della continuità, anelasticità, ìnvasività e compressione dell’autonomia del lavoratore nello svolgimento della sua attività lavorativa,del sistema adottato dalla società per pervenire all’accertamento dei fatti. Ha quindi proceduto al giudizio di proporzionalità tra i fatti accertati e la sanzione arrogata, ritenendo che si fosse in presenza di inadempimenti che esulano dallo schema previsto dall’art. 10 del C.C.N.L., in considerazione del fatto che il lavoratore era stato già sanzionato per fatti analoghi nel 2003 e nel 2009 e che tali precedenti erano stati espressamente richiamati nella lettera di contestazione.
1.4. Contro la sentenza il D.L. propone ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi, cui resiste con controricorso la società. Le parti depositano memorie ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

In via preliminare deve rilevarsi che è infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione sollevata dalla difesa della P. A. s.r.l. nella memoria ex art. 378 c.p.c., sul presupposto che esso sarebbe stato notificato ai sensi dell’art. 149 c.p.c. l’ l 1 febbraio 2014 (espressamente definito dal notificante, quale “ultimo giorno”), e cioè il sessantunesimo giorno dopo la data di comunicazione della sentenza della Corte aquilana, avvenuta a mezzo PEC il 12 dicembre 2013. In realtà, come si evince dalla stampigliatura in calce al ricorso, apposta dall’ufficiale giudiziario notificatore, l’atto è stato consegnato per la notifica il 10 febbraio 2014, con la conseguenza che il ricorso è tempestivo e, dunque, ammissibile. 1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta “la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 legge n. 300/1970, dell’art. 18, comma 4 °, legge n. 300/1970 e dell’art. 1175 c. c., in relazione all’art. 360, comma I’, n. 3 c.p. c. per non essersi dichiarato inutilizzabile il controllo a distanza operato sul lavoratore senza la preventiva e indispensabile autorizzazione”. Assume che lo “stratagemma” (così definito dalla corte del merito) adoperato dall’azienda per accertare le sue conversazioni telefoniche via internet durante l’orario di lavoro costituisce una forma di controllo a distanza, vietato dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori, trattandosi peraltro di un comportamento di rilievo penale, oltre che posto in violazione dei principi di correttezza e buona fede previsti dall’art. 1175 c.c.
1.2. – Il motivo è infondato.
1.3.- E’ rimasto accertato nella precedente fase di merito che, previa autorizzazione dei vertici aziendali, il responsabile delle risorse umane della P. A. s.r.l. ha creato un falso profilo di donna su face book con richiesta di “amicizia” al D.L., con il quale aveva poi “chattato in più occasioni”, in orari che la stessa azienda aveva riscontrato concomitanti con quelli di lavoro del dipendente, e da posizione, accertata sempre attraverso face-book, coincidente con la zona industriale in cui ha sede lo stabilimento della società.
1.4. – L’art. 4 dello statuto dei lavoratori vieta le apparecchiature di controllo a distanza e subordina ad accordo con le r.s.a. o a specifiche disposizioni dell’Ispettorato del Lavoro l’installazione di quelle apparecchiature, rese necessarie da esigenze organizzative e produttive, da cui può derivare la possibilità di controllo. E’ stato affermato da questa Corte che l’art. 4 ‘:fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore” (Cass., 17 giugno 2000, n. 8250), sul presupposto –
“espressamente precisato nella Relazione ministeriale – che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro” (Cass., n. 8250/2000, cit., principi poi ribaditi da Cass., 17 luglio 2007, n. 15892, e da Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722).
1.5.- li potere di controllo dei datore di lavoro deve dunque trovare un contemperamento nel diritto alla riservatezza del dipendente, ed anche l’esigenza, pur meritevole di tutela, dei datore di lavoro di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore. 1.6. – Benché non siano mancati precedenti di segno contrario (Cass., 3 aprile 2002, n. 4746), tale esigenza di tutela della riservatezza del lavoratore sussiste anche con riferimento ai cosiddetti “controlli difensivi” ossia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso, ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentino quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro” (Cass., n. 15892/2007, cit.; v. pure Cass., 1 ottobre 2012, n. 16622). In tale ipotesi, è stato precisato, si tratta di “un controllo cd. preterintenzionale che rientra nella previsione del divieto flessibile di cui all’art. 4, comma 2″ (Cass. 23 febbraio 2010 n. 4375). 1.7 – Diversamente, ove il controllo sia diretto non già a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni direttamente scaturenti dal rapporto di lavoro, ma a tutelare beni del patrimonio aziendale ovvero ad impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti, si è fuori dallo schema normativo dell’art. 41. n. 300/1970. 1.8. – Si è così ritenuto che l’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali per conoscere il testo di messaggi di posta elettronica, inviati da un dipendente bancario a soggetti cui forniva informazioni acquisite in ragione del servizio, prescinde dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa ed è, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) (Cass., n. 2722/2012). Così come è stata ritenuta legittima l’utilizzazione, da parte del datore di lavoro, di registrazioni video operate fuori dall’azienda da un soggetto terzo, estraneo all’impresa e ai lavoratori dipendenti della stessa, per esclusive finalità “difensive” del proprio ufficio e della documentazione in esso custodita (Cass., 28 gennaio 2011, n. 2117).
1.9. – Infine, è stato precisato che le norme poste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, artt. 2 e 3, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi con specifiche attribuzioni nell’ambito dell’azienda (rispettivamente con poteri di polizia giudiziaria e di controllo della prestazione lavorativa), ma non escludono il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno – costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa – l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti né il divieto di cui alla stessa L. n. 300 dei 1970, art. 4, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. 10 luglio 2009, n. 16196). 1.10.- Nell’ambito dei controlli cosiddetti “occulti”, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di affermarne la legittimità, ove gli illeciti del lavoratore non riguardino il mero inadempimento della prestazione lavorativa, ma incidano sul patrimonio aziendale (nella specie, mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa di un esercizio commerciale ed appropriazione delle somme incassate), e non presuppongono necessariamente illeciti già commessi (Cass., 9 luglio 2008, n. 18821; Cass., 12 giugno 2002, n. 8388; v. Cass., 14 febbraio 2011, n. 3590, che ha precisato che le disposizioni dell’art. 2 dello statuto dei lavoratori non precludono al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative – purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’ari. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori -, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione; e Cass., 2 marzo 2002, n. 3039 che ha ritenuto legittimo il controllo tramite pedinamento di un informatore farmaceutico da parte del capo area; v. pure Cass., 14 luglio 2001, n. 9576, in cui si è ribadita, citando ampia giurisprudenza, la legittimità dei controlli effettuati per il tramite di normali clienti, appositamente contattati, per verificare l’eventuale appropriazione di denaro {ammanchi di cassa)-da parte del personale addetto).
In questo stesso orientamento, si pone da ultimo, Cass., 4 marzo 2014, n. 4984, che ha ritenuto legittimo il controllo svolto attraverso un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex lege n. 104 del 1992, qj art. 33, (suscettibile di rilevanza anche penale), non riguardando l’adempimento della prestazione lavorativa, in quanto effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa.
1.11.- Da questo panorama giurisprudenziale, può trarsi il principio della tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi “occulti”, anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi, e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale. 1.12.- Ad avviso del Collegio, la fattispecie in esame rispetta questi limiti e si pone al di fuori del campo di applicazione dell’art. 4 dello statuto dei lavoratori. Infatti, il datore di lavoro ha posto in essere una attività di controllo che non ha avuto ad oggetto l’attività lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto adempimento, ma l’eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, poi effettivamente riscontrati, e già manifestatisi nei giorni precedenti, allorché il lavoratore era stato sorpreso al telefono lontano dalla pressa cui era addetto (che era così rimasta incustodita per oltre dieci minuti e si era bloccata), ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un dispositivo elettronico utile per conversazioni via internet.
Il controllo difensivo era dunque destinato ad riscontare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale, sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti. Si è trattato di un controllo ex post, sollecitato dagli episodi occorsi nei giorni precedenti, e cioè dal riscontro della violazione da parte del dipendente della disposizione aziendale che vieta l’uso del telefono cellulare e lo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di servizio.
1.13. – Né può dirsi che la creazione del falso profilo face book costituisca, di per sé, violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, attenendo ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva né induttiva all’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito.
1.14. Altrettanto deve dirsi con riguardo alla localizzazione del dipendente, la quale, peraltro, è avvenuta in conseguenza dell’accesso a face book da cellulare e, quindi, nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato, attraverso il sistema di rilevazione satellitare del suo cellulare.
In ogni caso, è principio affermato dalla giurisprudenza penale che l’attività di indagine volta a seguire i movimenti di un soggetto e a localizzarlo, controllando a distanza la sua presenza in un dato luogo ed in un determinato momento attraverso il sistema di rilevamento satellitare (GPS), costituisce una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile ad attività di intercettazione prevista dall’art. 266 e seguenti c.p.c. (Cass. pen., 13 febbraio 2013, n. 21644), ma piuttosto ad un’attività di investigazione atipica (Cass., pen., 27 novembre 2012, n. 48279), i cui risultati sono senz’altro utilizzabili in sede di formazione del convincimento del giudice (cfr. sul libero apprezzamento delle prove atipiche, Cass., 5 marzo 2010 , n. 5440).
1.14. – Sono invece inammissibili per difetto di autosufficienza le ulteriori doglianze del ricorrente, incentrate sull’inquadrabilità della condotta posta in essere da Gianmarco Pinto, responsabile delle risorse umane della P., e costituita dalla creazione del falso profilo face book, nel reato di cui all’art. 494 c.p. Di tale questione non vi è, infatti, cenno nella sentenza impugnata e la parte, pur asserendo di averla sottoposta alla cognizione dei giudici di merito, non indica in quale momento, in quale atto e in quali termini ciò sarebbe avvenuto, con la precisa indicazione dei dati necessari per il reperimento dell’atto o del verbale di causa in cui la questione sarebbe stata introdotta. Né l’accertamento della rilevanza penale del fatto può essere condotto d’ufficio da questa Corte, poiché la valutazione circa l’esistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del reato richiede un’indagine tipicamente fattuale, che esula dai limiti del sindacato devoluto a questa Corte. Conseguentemente, sono da dichiararsi inammissibili ai sensi dell’art. 372 c.p.c. i documenti prodotti dal ricorrente unitamente alla memoria difensiva, relativi ad atti del procedimento penale avviato nei confronti del Pinto (decreto penale di condanna e verbali di interrogatorio), poiché essi non riguardano la nullità della sentenza impugnata né l’ammissibilità del ricorso o del controricorso. 2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c. c., dell’art. 5 legge n. 604/1966, dell’art. 2697 c. c.,
dell’art. 7 legge n.300/ 1970 e dell’art. 18, comma quattro, legge n. 300/1970 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) per non essersi assolto all’onere
probatorio gravante in capo al datore di lavoro giustificativo del comminato licenziamento. Erronea e carente valutazione delle risultanze probatorie in
relazione all’art. 360 comma primo n. 5), per essersi erroneamente valutate ed interpretate le acquisizioni probatorie agli atti di causa”.
2.1. – Il motivo è inammissibile sotto il profilo della violazione di legge, dal momento che il ricorrente non indica quale affermazione della Corte territoriale si pone in violazione delle norme indicate. Ed invero il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360, n. 3, c.p.c., deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di “errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle
soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, (cfr. Cass., 8 marzo 2007, n. 5353; Cass., 19 gennaio 2005, n.
1063; Cass., 6 aprile 2006, n. 8106; Cass., 26 giugno 2013, n. 16038; 1 dicembre 2014, n. 25419).
2.2. – Sotto il profilo del vizio di motivazione deve rilevarsi che, nel regime del nuovo art. 360, comma I’, n. 5 c.p.c. (applicabile ratione temporis alla sentenza in esame, in quanto pubblicata dopo il 30° giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge 7 agosto 2012, n. 134), valgono i principi espressi dalle Sezioni unite di questa Corte, che con la sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014, hanno affermato che “L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d. l. 22 giugno 2012, n. 83, cony. in

 legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’ omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale atto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie “.
2.3. – Nel caso di specie, il ricorrente non ha assolto tale onere, avendo omesso di specificare quale tra i fatti principali o secondari non sia stato considerato dal giudice di merito, risolvendosi la censura essenzialmente nell’addebitare alla Corte
di non aver valutato la documentazione esibita dalle parti nel secondo grado del
giudizio – documentazione di cui peraltro non viene indicato né il contenuto né i tempi e i luoghi della sua produzione, con evidente violazione del principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione -; nonché di aver ritenuto provate circostanze di fatto che, invece, non erano state trovate, senza peraltro, anche in tal
caso, riportare integralmente le deposizioni testimoniali che non sarebbero state esattamente interpretate e senza specificare dove sarebbero rinvenibili i verbali in
cui le dette deposizioni sarebbero state trascritte. Infine, introduce questioni nuove, che non risultano affrontate nella sentenza di merito e rispetto alle quali il ricorrente
non fornisce indicazioni sul modo ed il tempo in cui esse sarebbero state introdotte nelle pregresse fasi del giudizio di merito. Ciò vale per la mancata affissione del
codice di disciplinare e per la recidiva, che secondo il suo assunto non avrebbe potuto esser utilizzata dal giudice di merito in quanto i fatti, relativi all’anno 2009,
sarebbero stati archiviati e gli altri, risalenti al 2003, non potevano certo valereá~fini di determinare il licenziamento.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, è sufficiente rilevare che il giudice del merito ne ha tenuto conto ai soli fini della globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati, non già come fatto costitutivo del diritto di recesso, con la conseguente irrilevanza dell’asserita archiviazione (Cass., 19 dicembre 2006, n. 27104; Cass., 20 ottobre 2009, n. 22162; Cass., 27 marzo 2009, n. 7523; Cass., 19 gennaio 2011, n. 1145).
2.4. – In definitiva, così impostato, il motivo del ricorso si risolve in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate e, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal Giudice di merito cui non può imputarsi d’avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché soddisfa all’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (cfr. tra le tante, Cass., 25 maggio 2006, n. 12446; Cass. 30 marzo 2000 n. 3904; Cass. 6 ottobre 1999 n. 11121).
2.5.- Non sussiste pertanto il denunciato vizio di motivazione il quale, anche nella giurisprudenza precedente all’intervento delle sezioni unite citato, deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettate dalle parti rilevabili, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dalla ricorrente e, in genere, dalle parti per tutte, Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24148; Cass., ord. 7 gennaio 2014, n. 91). 3.- Con il terzo motivo il ricorrente censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c. c., dell’art. 1 legge n. 604/1966, dell’art. 1455 c. c., dell’art. 2697 c. c. e dell’art. 18, comma quarto, legge n. 300/1970 in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3) c.p.c. sotto il profilo della mancata proporzionalità tra il comportamento addebitato al lavoratore e il licenziamento comminatogli. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., dell’art. 1 legge n. 604/1966, degli artt. 9) e 10) sez. IV, titolo VII del C. C. N. L. dei metalmeccanici e dell’art. 18, comma quarto, legge n. 300/1970 in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3) sotto il profilo dell’erronea, incongrua e immotiva applicazione della sanzione del licenziamento comminato al lavoratore”. 3.1.- Il motivo è improcedibile con riferimento alla dedotta violazione delle norme del C.C.N.L. dei metalmeccanici, ai sensi dell’art. 369, comma 2°, n. 4 c.p.c. in difetto della produzione, unitamente al ricorso per cassazione, del contratto collettivo, oltre che di ogni precisa indicazione circa il tempo e il luogo della sua produzione nelle pregresse fasi del giudizio e l’attuale sua collocazione nel fascicolo del giudizio di cassazione.
Quanto al giudizio di proporzionalità, esso è stato condotto dal giudice del merito con rigore, valutando tutti gli elementi di fatto raccolti e complessivamente considerati dai quali ha tratto un giudizio, da un lato, di gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, di proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per giungere al convincimento che le lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, era tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
4. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e 4000 per compensi professionali, oltre oneri accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1, quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.

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